venerdì 12 aprile 2013

Prove pratiche contro l’industria: la permapicoltura


Personalmente ho sempre creduto che, all’avvento di una socio-macchina così complessa, tecnologizzata e dedita ad un controllo capillare, fosse di primaria importanza recuperare quanto più possibile di quell’infinito sottobosco di competenze umane perdute – nella misura in cui tali competenze contribuiscono a creare autonomia per noi stessi e/o i nostri affini, le nostre “comunità amorose” (cit.).
Non è una questione di poco. In tessuti urbani metropolitani (dalle metropoli vere e proprie fino ai nuovi quartieri non-luogo alla periferia delle città minori), pensare di rendere più “sostenibile” l’ambiente circostante è, nel migliore dei casi, ingenuo. Per lo più, in malafede.
In un contesto concepito per uno specifico obiettivo, ovvero gestire i flussi di denaro e merce (persino della “merce umana”, o delle “risorse umane”, per dirla all’aziendale-maniera) troviamo davanti a noi, che lottiamo per una demilitarizzazione del nostro spazio naturale, infinite “barriere architettoniche”: va da sé che i leitmotif ecologisti e cittadinisti andranno messi da parte una volta per tutte, andando a muovere una critica ben più profonda, basilare; ovvero, ad esempio, contestare l’essenza stessa del lavoro.
Una tale critica, che in questa sede non approfondirò oltre teoricamente, trova riscontri pratici in sistemi metodologicicome quello della permacultura o, meglio, dell’agricoltura naturale di Masanobu Fukuoka1; qualcuno, probabilmente, storcerà il naso al sentire citare queste pratiche e questo a causa dell’enorme lavoro di recupero che vari movimenti di ecologisti (e cittadinisti in senso ampio) stanno esercitando per reintegrare la componente – passatemi il termine – rivoluzionaria delle pratiche dell’agricoltura del non-lavoro e per spegnerle nel grande calderone istituzionale. Come fa il movimento delle Transition Towns, ad esempio. Tuttavia, credo che ciò non dovrebbe scoraggiarci dal riappropriarci del buono che è insito in queste pratiche, e nella loro alta capacità potenziale di renderci più autonomi dal tessuto urbano e dalle ragioni che hanno portato alla creazione di questo tessuto. Ma sto mettendo troppo sul fuoco.
Una pratica specifica su cui mi sono soffermato da un paio di anni a questa parte è quella dell’apicoltura; anche le api hanno pagato lo scotto dello sviluppo, vedendo decimata la loro popolazione a causa di 3 principali fattori:
  1. Drastica diminuzione ed impoverimento degli spazi verdi a causa dell’urbanizzazione.
  2. Introduzione, a causa del commercio globalizzato, dell’acaro Varroa.
  3. Inquinamento dell’aria, con particolare riferimento all’uso di pesticidi.
Insieme a questi fattori ambientali, gioca un enorme ruolo la progettazione delle moderne arnie Dadant-Blatt (le arnie “razionali”) le quali, pur avendo rappresentato un’enorme innovazione rispetto ai tradizionali bugni villici2, rimane pur sempre un sistema artificioso e concepito per perseguire una produzione “economica”, anziché il benessere delle famiglie di api.
A tal proposito sono entrato in contatto, tramite degli amici di una comune agricola di Velletri (RM), con le sperimentazioni di Oscar Perone, apicoltore argentino che, attraverso anni di sperimentazione (pur poco documentata), ha cercato di applicare i principi ed il modus operandi della permacoltura all’attività apistica; da questo connubio, si è andato definendo un nuovo modo di concepire il rapporto, in realtà già molto stretto, tra ape ed uomo: la permapicoltura. Questa pratica viaggia in una direzione diametralmente opposta rispetto alla logica della produzione del miele e, come accennato, mira a creare un ambiente quanto più adatto al benessere delle api, laddove dal loro benessere deriva un benessere per tutta la biosfera, uomo incluso.
Le arnie permapicolturali sono costruite per simulare l’ambiente di un albero cavo: esse non presentano telaini, fogli cerei prestampati, entrate forzose o trappole di sorta: la famiglia di api ha a disposizone una larga camera per il nido, a partire dalla quale costruisce i favi in piena libertà, gestendo i propri spazi secondo le esigenze peculiari non del genere apis, non della razza, ma della specifica famiglia che si trova a dover costruire la propria sistemazione.
Questa autonomia porta le api ad adottare le soluzioni ottimali per la loro famiglia, autogestendo il più possibile gli spazi e (qui l’aspetto più importante) conservando energie per altre attività, come la raccolta e, soprattutto, l’igiene dell’alveare: nella maggioranza schiacciante dei casi, infatti, le famiglie di api “allevate” con i principi della permapicoltura riescono a gestire la piaga della varroa senza l’ausilio dei rimedi comuni dell’apicoltura moderna (timolo, acido ossalico, acido formico, ecc…).
L’intervento del permapicoltore, dunque, si limiterà alla falegnameria necessaria per la costruzione iniziale del nido. Dopo l’insediamento, la famiglia non dovrebbe subire raccolte di miele da parte nostra per 2 anni. Questo tempo viene indicato sulla base dell’esperienza di Perone ed è il tempo più o meno necessario alla famiglia per raggiungere un livello di prosperità tale da resistere bene ai prelievi di miele da mano umana; prelievi che, in ogni caso, devono essere fatti con criterio: innanzitutto, il primo melario (quello a contatto con il nido) non verrà mai raccolto.
Nonostante queste restrizioni (mi perdonerete l’antropocentrismo di questo capoverso), la produzione specifica di miele delle famiglie d’api allevate in permapicoltura sarà, nel tempo e grazie alla prosperità della famiglia stessa, molto maggiore che nel caso di un allevamento moderno.
Potrete già domani cominciare con la vostra arnia permapicolturale (si può costruire facilmente anche con legno recuperato) ed insediarvici uno sciame. Ricordate che, nella fase iniziale, non dovrete assolutamente montare alcun melario: l’includi-regina3 permette il passaggio d’ogni tipo di api per cui, se porrete subito tutti i melari, i favi di covata verranno costruiti istintivamente nel punto più alto a disposizione, rendendo impossibile per noi la raccolta! Mettendo all’inizio solo nido, telaio includi-regina e tetto, invece, le covate verranno iniziate (e mantenute!) nel punto più basso. Dopo circa due settimane potranno essere aggiunti i melari in tutta tranquillità.
A causa della scarsa documentazione prodotta, esistono molte versioni di questo tipo di arnia, con variazioni che riguardano essenzialmente le misure: tutte hanno, di fatto, lo stesso principio e la stessa struttura di base. Allego, dunque, le due varianti principali con cui sono entrato in contatto: quella più “chiatta” la potete trovare a questo indirizzo.
Mentre quella più longilinea, la trovate nell’immagine in calce.
Spero che tutto vi torni utile: se siete arrivati fin qui, probabilmente saprete quanto la nostra fragile esistenza dipenda anche dal benessere e dalla prosperità delle api. Queste pratiche potrebbero essere un importante tessera da aggiungere al nostro puzzle per la fuga dal grigiore e dallo sfruttamento.



1: Per approfondimenti si consiglia «La Rivoluzione del filo di Paglia» e «Lezioni Italiane», entrambi di Masanobu Fukuoka (Libreria Editrice Fiorentina)
2: Il bugno villico è un genere di alveare tradizionale, precedente all’epoca delle Dadant-Blatt (arnia oggi più comunemente utilizzata), costruito di vimine, paglia, argilla, pietra o altri materiali naturali. La principale caratteristica di queste arnie è che la raccolta viene fatta attraverso l’apicidio, ovvero la torchiatura dei favi nella loro interezza

3: No, non mi sono confuso. L’includi-regina, così chiamato perché non impedisce realmente il passaggio della regina, è l’elemento fondamentale di tutta l’arnia permapicolturale, nonché la traccia-canovaccio da cui le api partono per costruire i loro favi.

Articolo di Gerri P. Malerba



1 commento:

  1. Sono convinto della eccezionale funzionalità di questa arnia. mi piacerebbe partecipare ad un corso pratico su questa tecnica ma non ho trovato riferimenti precisi . Chiedo informazioni in merito, grazie. Stefano. azor1970@gmail.com

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